Recensione de L’osservatore Romano al volume Memorie segrete
Di Rosa di Viterbo, santa giovanissima, eroica, hanno detto e scritto Léon de Kerval, in un felice ritratto del 1896, e in tempi più vicini Frei Urbano Plens, Ernesto Piacentini, registi e sceneggiatori come Rosanna De Marchi, Luigi Avella… La statua della santa, innalzata sui tetti del più vasto centro storico d’Europa, per mezzo d’una gigantesca macchina a spalla, è ormai entrata nell’immaginario di molti, non solo nelle liste dei periti dell’Unesco. Insomma, Viterbo e la sua santa sono davvero unite in una intrecciatura inestricabile, come dimostra anche una recente pubblicazione, Memorie segrete. Una cronaca seicentesca del monastero di Santa Rosa di Viterbo (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2020, pagine XXVI -294, euro 31), a cura di Eleonora Rava.
Proprio a Viterbo, nelle immediate vicinanze della religiosità rosiana, un piccolo gruppo di studiosi ha riportato al nostro interesse un’antica cronaca monastica, risalente al XVII secolo, che costituisce, insieme ai suoi più illustri consimili, i memoriali di suor Arcangela Tarabotti, ad esempio, un esemplare specialissimo per la storia della Chiesa e della pietà. Memorie segrete è il risultato di una intensa ricognizione sul contesto dell’opera (la città, il monastero, le dinamiche interne alla comunità).
Pur rientrando in una tradizione che ha antecedenti nella Bella memoria anticha, la cronaca viterbese del Seicento si discosta dagli esempi di libri memoriali più noti. Non mancano alcuni degli elementi comuni ai diversi scritti narrativi delle famiglie monastiche, quali il numero e il nome delle professe, le vestizioni, l’elezione delle badesse e la descrizione dei beni monastici. Tuttavia le Memorie segrete sono interessate ad appuntare con scrupolo di verità gli eventi più notevoli, i mutamenti disciplinari ed economici che avvennero nella comunità tra la fine del secolo XVI e la prima metà del XVII . Non è, quindi, soltanto questione di nomi e cognomi, da ordo verborum, si tratta d’un pezzo di storia del nostro Paese e di un interessante sguardo psicologico e sociologico sulle dinamiche interne d’un gruppo di donne tra Cinquecento e Seicento.
Scritta tra il 1647 e il 1648, la cronaca di Santa Rosa ripercorre la storia precedente del monastero sulla base della documentazione, dei diversi libri memoriali e della testimonianza delle monache anziane. L’autrice inizia tuttavia nel 1591 a raccontare quanto ha visto personalmente. Nella storia si intrecciano notizie diverse, riguardanti la disciplina, la spiritualità, l’economia della famiglia monastica, che l’autrice racconta con grande senso di partecipazione, pur rimanendo nell’ombra. Alcune notizie sono davvero affascinanti.
Alludiamo in particolare alla narrazione del misterioso evento che tra il novembre 1617 e il maggio del 1618 sconvolse la vita del monastero di Santa Rosa: la presunta possessione diabolica di quindici monache, che ebbe tragiche conseguenze per cinque di esse. Di lì a poco, scoppiò una vera e propria epidemia europea di «possessioni diaboliche» in convento: dalle ben note Orsoline di Loudon, alle aristocratiche Clarisse di Carpi. Sappiamo oggi che simili concomitanze furono causate dalla claviceps purpurea, presente nella segale avariata del pane nero consumato nei conventi, invece che all’azione del demonio, come dimostrato da una doviziosa letteratura scientifica che non osiamo contestare.
In ogni caso, Memorie segrete colma un vuoto enorme, non soltanto «di ricerca», ma anche «di audacia»: basti pensare che il manoscritto finora non era mai stato oggetto di studio, perché ritenuto scandaloso, di cattivo esempio, riservato. La «segretezza», richiamata sin dal titolo, fu raccomandata vivamente da coloro che nei secoli successivi lessero e custodirono il manoscritto: «Lo tenga la M. Abb., segreto con li secolari e religiose».
Gabriella Zarri, storica, curatrice della serie Scritture nel chiostro, cui aderisce anche il testo in questione, spiega il motivo in una brillante premessa, che occupa lo spazio di ventidue pagine. Le scritture contabili e i libri di ricordi erano considerati da secoli prerogativa del Pater familias, basti ricordare il monito di Leon Battista Alberti ne I libri della famiglia (1. III ): «compili personalmente i libri e li custodisca nella sua stanza, lontani dagli occhi delle donne di casa». Con l’appropriarsi del compito di redigere le cronache, le monache non acquistavano soltanto l’occasione di mostrare la loro progressiva acculturazione, ma anche di costruire la propria identità e consegnare ai posteri la propria memoria, a cominciare dalle sorelle stesse del monastero. Nel 1990, Gianna Pomata scrisse un articolo assai fortunato, intitolato Storia particolare e storia universale: in margine ad alcuni manuali di storia delle donne («Quaderni Storici», nuova serie, XXV [1990], numero 74/2, pp. 341-385). Servirebbe leggerlo per rendersi conto dell’importanza storica di un testo come la cronaca del monastero di Santa Rosa (et similia). In quel celebre articolo Pomata distingueva tra «storia universale», scritta dagli uomini, e «storia particolare», scritta dalle donne. La ragione di questa definizione consisteva nel fatto che, specialmente nel passato, la condizione femminile addensava l’esperienza di vita e di conoscenza delle donne presso l’ambito domestico o altro luogo spazialmente e geograficamente circoscritto.
Lo stesso accesso ai libri era per lo più limitato alle biblioteche familiari e paterne o a quelle monastiche, così come la documentazione storica doveva essere conservata e resa consultabile nella sfera di vita delle stesse. Per secoli, dunque, la storia delle donne si espresse principalmente nell’ambito della storia familiare o di singole personalità o di istituzioni destinate alla vita religiosa o all’educazione femminile.
Le Cronache monastiche, perciò, possono considerarsi a pieno titolo espressione di quella “storia particolare” scritta nel passato dalle donne e in cui raggiunsero, in alcuni casi, risultati davvero eccellenti. La cronaca seicentesca di Santa Rosa è certamente uno di questi.