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INCASTRI PER RICOSTRUIRE

Il progetto Incastri per ricostruire è frutto del lavoro svolto da un gruppo di persone detenute nell’ambito delle attività di formazione che il Centro Studi Santa Rosa da Viterbo e l’Università degli Studi della Tuscia hanno avviato a partire dal 2020 in collaborazione con la Casa Circondariale di Viterbo. Esso gode del supporto della Regione Lazio – Direzione Affari Istituzionali e Personale (Determinazione 24 /11/2022, n. G16329), è coordinato da Eleonora Rava e Paola Pogliani, si svolge in collaborazione con il Sodalizio dei Facchini di Santa Rosa, si avvale della progettazione dell’ing. Elena Starnini Sue e della collaborazione di suor Lucia Di Martino, Lucia Maiorano, Lucia Malvinni, Patrizia Tagliatti. L’idea è nata per promuovere attività creative e manuali che garantiscano un accesso al mondo del lavoro partendo dalla conoscenza della progettazione e produzione di un modello semplificato e in scala ridotta di una delle macchine di Santa Rosa: Volo d’angeli. Il percorso offerto è stato articolato in incontri settimanali a cui hanno preso parte i protagonisti della progettazione, della costruzione e del trasporto della macchina di Santa Rosa – Raffaele Ascenzi, Alessio e Mirko Fiorillo, Massimo Mecarini, Giuseppe e Luigi Zucchi – ed in attività pratiche svolte con strumenti didattici che fanno riferimento alla metodica di apprendimento “learning by doing” per favorire la libera espressione della persona detenuta oltre che per coinvolgerla in attività di studio, ricerca e laboratoriali. Il risultato è la realizzazione di un modello componibile e creato, in serie limitata, a partire da semilavorati in legno utilizzando, anche per il packaging, unicamente materiali ecocompatibili. Il modello viene distribuito smontato in piccole parti che, una volta assemblate tra loro con la tecnica dell’incastro, daranno luogo alla struttura tridimensionale. Questa modalità di realizzazione in scala ridotta della macchina di Santa Rosa rappresenta un’innovazione nell’ambito della nota tradizione culturale viterbese. La macchina è espressione della volontà di mantenere viva, fra memoria e fede, la tradizione che lega Viterbo alla patrona cittadina; il trasporto della macchina è simbolo della condivisione dei compiti, del coordinamento, dello sforzo e del sacrificio di oltre cento uomini che se ne fanno carico. Cooperazione e lavoro di gruppo sono i valori che animano il progetto sviluppato con le persone detenute a Viterbo realizzando il modello della macchina di Santa Rosa, una struttura modulare da ricomporre e a cui dare solidità.

I modelli tridimensionali sono frutto del lavoro di Kayhan B., Francesco B., Patrizio C., Pietro C., Christan C., Giuseppe D.M., Calogero F., Daniele F., Stefano F., Sebastiano M., Leonardo M., Giuseppe M., Salvatore N. , Nicola S., Costantino S., Luca T., Jacopo V. I testi sono di: Francesco B. e Patrizio C. con la collaborazione di Andrea M., Luca T., Giuseppe M, Salvatore N. e Stefano F.

Mostra: la ceroplastica nei monasteri clariani

a cura di Lucia Malvinni

Il Centro Studi Santa Rosa da Viterbo ETS organizza a Viterbo una mostra dal titolo “La ceroplastica nei monasteri femminili clariani” dal 7 dicembre 2023 al 30 gennaio 2024, dislocata in due sedi. La mostra si inaugura il 7 dicembre secondo gli orari e i programmi visibili sotto.

Da sempre apprezzata per le sue qualità uniche di malleabilità e somiglianza con l’epidermide umana per via del suo aspetto morbido e levigato, la cera ha trovato, nel corso della storia, diversi impieghi nelle attività artigianali e manuali. Venne impiegata come collante, come materia plastica nella realizzazione di statue antropomorfe, modelli anatomici e decorazioni a rilievo e, infine, come materiale da stampo per creare oggetti in metallo e in qualità di additivo come legante nelle arti pittoriche. Per queste sue caratteristiche, nei monasteri femminili nei secoli passati si utilizzava la cera per produrre oggetti con funzione devozionale, volta a soddisfare le esigenze di culto popolare, in modo particolare attraverso la realizzazione di ceri, ex voto, statuette e figurine del presepe.

Sul finire del Seicento l’arte della ceroplastica devozionale era considerata appannaggio delle monache, soprattutto riguardo ai Bambinelli. Le statue di cera potevano raffigurare Gesù bambino in fasce in vari atteggiamenti: supino, assiso in trono o su una semplice sediolina, dormiente o vigile, in posizione orante o in espressioni naturalistiche. Queste statue potevano essere vendute come doni diretti alle giovani spose in quanto oggetti propiziatori e di buon auspicio; potevano far parte della dote delle monache o sancire la comunione spirituale con altri conventi come nel caso del famoso simulacro di Maria Bambina conservato nell’omonimo santuario di Milano. In altri casi, le sculture in ceroplastica riproducenti il Bambinello e Maria bambina venivano realizzate con lo scopo di essere regalate alle personalità cattoliche di spicco.

Per comprendere i motivi che si celano dietro la produzione di manufatti aventi le sembianze di Gesù e Maria bambini, dobbiamo riflettere sugli influssi di natura spirituale e disciplinare mossi dalla riforma tridentina. Quest’ultima, in linea con il Vangelo, sosteneva l’utilizzo di modelli di comportamento morale da proporre ai fedeli (exempla) attraverso la creazione di sculture di santi e martiri. L’arte ceroplasta si diffuse soprattutto tra gli ordini Mendicanti. Pertanto statue di cera di Gesù Bambino erano diffuse, fra il Seicento e il Settecento, in un numero cospicuo di monasteri di Clarisse.

Orari della Mostra

Monastero di S. Rosa (via S. Rosa, 33)

Tutti i giorni 9.30/12.30, 15.30/18.30 (chiuso il lunedì pomeriggio, tranne il 25 e il 1° gennaio)

Monastero di S. Bernardino (piazza della Morte) 

(coming soon!!!)

 

Limiti: muri e confini nella storia

Convegno internazionale Procida, 23-24 settembre 2023

Il Centro Studi Santa Rosa da Viterbo ETS organizza il convegno internazionale grazie al contributo concesso dalla Direzione generale Educazione, ricerca e istituti culturali e in collaborazione con diversi istituti culturali e università italiane e straniere.

La scelta di Procida è direttamente connessa con il riconoscimento della sede come città della cultura 2022 con il tema “isola che non isola”. Infatti, muri e confini sono diventati una fonte di ansia e disagio nel mondo contemporaneo, perché i movimenti transnazionali di persone hanno eretto nuovi ‘muri’ tangibili e intangibili. Questi segni sono per lo più invocati come barriere per racchiudere e proteggere o per dividere e segregare. Eppure, l’indagine storica dimostra che muri e confini hanno spesso unito le persone, consentendo interazioni multiple sia all’interno che all’esterno del dominio del tempo e dello spazio. Il convegno cerca di esplorare queste relazioni esaminando come muri e confini – materiali, immateriali, ideologici, di genere, linguistici ecc. – possano essere variamente permeabili, collegando piuttosto che dividendo.

Gli interventi sono caratterizzati da approcci multidisciplinari: giuridico, religioso, geografico, culturale, antropologico, linguistico e sociale.

Comitato scientifico:

Simone Allegria, Antonella Ambrosio, Antonio Carannante, Andrew Cecchinato, Francesco Crupi, Ana Del Campo, Rosalba Di Meglio, Maurizio Errigo, Marco Meglio, Paola Pogliani, Irene Poli, Eleonora Rava, Francesca Rossi, Carlo Tedeschi.

Informazioni: segreteria-limiti@centrostudisantarosa.org 

Macchine di pace al Santuario di S. Rosa

In continuità con la mostra “La forza della fede” che già presentava uno spaccato sulla macchina di S. Rosa, nella sala del Quattrocento del Monastero di S. Rosa è stata allestita la mostra internazionale “Machines for Peace”, ricollegandosi al progetto Macchine di Pace, che ha preso avvio a Viterbo lo scorso anno per celebrare i dieci anni del riconoscimento UNESCO delle feste di Rete delle grandi Macchine e spalla, che coincide con il ventennale della Convenzione UNESCO 2003. La mostra completa, che prima è stata a Betlemme e Praga e che poi ritornerà nel contesto internazionale ha voluto dare particolare rilievo alla ricorrenza celebrativa anche in funzione dei festeggiamenti per i 45 anni di vita del Sodalizio dei Facchini di Santa Rosa; infatti tra i collaboratori vi sono i Facchini e GRAMAS, l’associazione delle comunità della Rete.

Nella Sala delle Colonne si ospita l’’esposizione “Reportage di Patrimonio”, che presenta le feste narrate dagli scatti dei fotografi di comunità già presentata a Nola e Sassari.

La mostra, che resterà a Viterbo fino al 10 settembre, è realizzata in collaborazione con Ministero della Cultura- iCPI, è patrocinata dal Ministero degli Esteri, dalla Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO, dalla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e per l’Etruria meridionale, dal Rotary International e FRACH e dal Rotary Club di Viterbo, dalla Federazione nazionale Italiana per l’UNESCO, dalla Diocesi di Viterbo, dalle Città della Rete e da Meraviglia Italiana.

Una Rosa in campo: I edizione

“Una Rosa in campo” nasce da una idea della Lega nazionale dilettanti di Viterbo subito accolta dalla Diocesi, dalle suore del Monastero dedicato alla patrona e dal Centro Studi Santa Rosa ETS.

L’appuntamento è fissato per martedì 5 settembre, nell’ambito dei festeggiamenti per santa Rosa. Da piazza S. Lorenzo le squadre partiranno in corteo percorrendo le vie del centro attraversate dal percorso della Macchina. Poi l’arrivo al Santuario per l’evento e le premiazioni. Questo premio calcistico  vuole essere un “riconoscimento a dirigenti, tecnici e atleti che nella stagione calcistica 2022/2023 si sono distinti nell’opera di inserimento e aggregazione sociale”. Un’occasione di coinvolgimento e condivisione basata su valori comuni, quelli più alti dello sport. 

Come afferma papa Francesco: “Lo sport è importante perché insegna a giocare in squadra, salva dall’egoismo e aiuta a non essere egoista. Per questo è importante lavorare in squadra, studiare in squadra e andare nel cammino della vita insieme in squadra. E giocando in squadra ognuno è più persona, più gente, si ingrandisce di più. E giocando in squadra la competizione, invece di essere guerra, è seme di pace”.

Il processo di canonizzazione di Rosa da Viterbo

Sabato 10 giugno alle ore 11, si presenta il volume Il processo di canonizzazione di Rosa da Viterbo (1457), a cura di Attilio Bartoli Langeli ed Eleonora Rava, edito dal Centro Studi Antoniani. La presentazione, aperta al pubblico, ha luogo presso la Sala del Quattrocento del monastero di Santa Rosa (via Santa Rosa 33) a Viterbo.

La pubblicazione raccoglie gli atti inediti del processo di canonizzazione di Rosa da Viterbo, indetto da papa Callisto III nel 1456 e svoltosi nel 1457.

Durante l’incontro, intervengono Sua Eccellenza Orazio Francesco Piazza, Vescovo di Viterbo, la professoressa Alessandra Bartolomei Romagnoli, docente presso la Pontificia Università Gregoriana e Sua Eminenza Reverendissima Cardinale Fortunato Frezza. Gli interventi sono moderati dal professor Francesco M. Cardarelli, docente presso l’Università degli Studi della Tuscia.

L’incontro è trasmesso anche online, in diretta streaming, sul canale YouTube del Centro Studi Santa Rosa da Viterbo.

Panis et perna. Mostra documentaria

a cura di Alexa Bianchini, Romina De Vizio e Lucia Malvinni

Anche quest’anno il Centro Studi Santa Rosa da Viterbo partecipa alle Giornate di valorizzazione del patrimonio culturale ecclesiastico “Oltre lo scivolo. Beni culturali ecclesiastici: dall’accessibilità all’inclusione” che si svolgono dal 13 al 21 maggio, con l’apertura di una mostra che espone alcuni documenti dell’archivio del monastero romano di San Lorenzo in Panisperna.

“Panis et Perna” è un breve percorso documentario che racconta la vita liturgica, ma non solo, vissuta all’interno del Monastero in particolare nel giorno di festa del Santo. I documenti esposti, di età moderna e contemporanea, sono parte integrante dell’Archivio di San Lorenzo in Panisperna conservato presso l’Archivio Generale della Federazione Clarisse Santa Giacinta Marescotti. Nata per promuovere i valori della vita contemplativa clariana, la Federazione comprende alcune istituzioni monastiche toscane e laziali, tra cui anche l’omonimo Monastero.

Le fonti messe in mostra sono soprattutto di tipo liturgico, contabile e cronachistico ma l’archivio conserva anche altre tipologie documentarie attraverso le quali è possibile conoscere i vari aspetti della vita contemplativa, devozionale e attiva delle monache del venerabile Monastero.

La mostra è aperta dal 17 al 19 maggio dalle 10 alle 14 e tutti i mercoledì successivi sempre dalle 10 alle 14.

Nel mistero pasquale: un senso al passaggio

a cura di Angelo Sapio

Nell’ormai secolarizzata cultura occidentale due sono le festività cristiane che hanno meglio retto all’urto dei tempi, seppur profondamente alterate nel loro significato intrinseco, in quanto spogliate della propria valenza spirituale in funzione delle nuove esigenze proprie della moderna civiltà globale. Si tratta ovviamente del Natale e della Pasqua, le quali, grazie al forte richiamo evocativo che hanno saputo mantenere, si sono riadattate in chiave laica alla contemporaneità, permettendo allo stesso tempo di tramandare un patrimonio fatto di virtù e di doti morali ancora valide per il presente.

Diversamente dal Natale, la Pasqua è riuscita peraltro a conservare un’aura di maggiore neutralità, una sua immagine austera in cui il credente sperimenta meglio raccoglimento e contemplazione senza eccessive interposizioni.

Essa vanta inoltre una preesistente tradizione all’interno del culto ebraico, l’antica Pasqua, Pesach, in cui tutt’oggi viene celebrata la liberazione degli Ebrei dall’Egitto. La parola Pesach, che significa “passare oltre”, deriva dal racconto della decima piaga nella quale il Signore comandò agli Ebrei di segnare con il sangue dell’agnello le porte delle case di Israele permettendo allo sterminatore di “andare oltre” colpendo così solo le case degli Egizi e, in particolar modo, i primogeniti maschi degli Egizi, compreso il figlio del faraone (Esodo, 12,21-34). Pesach indica quindi la liberazione di Israele dalla schiavitù d’Egitto e l’inizio di una nuova libertà con Dio verso la terra promessa.

Con l’avvento del cristianesimo, la Pasqua ha acquisito un nuovo significato, indicando il passaggio da morte a vita per Gesù Cristo e il passaggio a vita nuova per i cristiani, liberati dal peccato con il sacrificio sulla croce e chiamati a risorgere con Gesù. La Pasqua cristiana che è quindi Pasqua di Risurrezione, è la chiave interpretativa della nuova alleanza, concentrando in sé il significato del mistero messianico di Gesù e collegandolo al Pesach dell’Esodo. Ponendo al centro la vicenda di Gesù, morto nel venerdì precedente la festa ebraica e risorto il giorno successivo, i cristiani leggono nella narrazione della Passione, l’avverarsi delle Scritture.

Dal punto di vista teologico, la Pasqua racchiude in sé tutto il mistero cristiano: con la Passione Cristo si è immolato per l’uomo, liberandolo dal peccato originale e riscattando la sua natura ormai corrotta, permettendogli quindi di passare dai vizi alla virtù; con la Risurrezione ha vinto sul mondo e sulla morte, mostrando all’uomo il proprio destino, ovvero la risurrezione nel giorno finale, ma anche il risveglio alla vera vita. Tutti questi concetti, oggi forse di difficile comprensione se rapportati alla complessità delle nostre azioni quotidiane, forniscono tuttavia un’occasione importante alle nostre riflessioni esistenziali.

Nell’arco della Settimana Santa precetti e riti della tradizione popolare si alternano e si sovrappongono in un insieme unico di esperienze individuali o condivise che spaziano dalla rinuncia alla preghiera, dall’attesa alla partecipazione, dalla vicinanza al ritiro. E’ il momento dell’anno per eccellenza in cui più si riflette sul mistero della vita e della vita oltre la morte.

In ogni epoca l’essere umano ha sempre cercato di fare i conti con la sua “finitezza”, che è una condizione analoga a tutte le altre forme viventi presenti sul pianeta, provando da un lato a prolungare la sua presenza terrena e dall’altro a intravvedere un “oltre” che possa dare un senso a quanto abbiamo costruito da vivi…

Sin dall’antichità il culto dei morti ha sempre esercitato una certa influenza all’interno della civiltà umana. Nel mondo romano e preromano ad esempio, era usanza seppellire i propri defunti all’interno di sarcofagi decorati da figure riferibili al mondo del mito: queste erano spesso utilizzate per descrivere le diverse qualità del defunto, o più in generale per alludere alla felicità dell’oltretomba attraverso la rievocazione di un mondo sereno e felice. Al loro interno veniva poi riposto un corredo funebre consono al rango sociale della famiglia. In talune circostanze, come nel caso della necropoli romana rinvenuta al di sotto delle grotte vaticane, le sepolture venivano realizzate con delle cavità attraverso le quali poter continuare a “nutrire” le salme dei defunti. Queste pratiche denotano la volontà degli individui a non separarsi mai totalmente dalla corporeità di chi li ha preceduti.

Nel 1889, durante i lavori di scavo per le fondazioni del Palazzo di Giustizia di Roma, vennero alla luce diversi reperti archeologici, tra i quali due sarcofagi ancora sigillati intitolati a personaggi della stessa famiglia: Crepereia Tryphaena, una giovane di circa vent’anni ed il padre Crepereius Euhodus, oggi conservati presso la ex Centrale Montemartini. Il corredo funebre, presente solo nel sarcofago di Tryphaena, appariva molto ricco di ornamenti d’oro e deposta accanto al suo scheletro vi era una bambola d’avorio, inizialmente creduta di legno di quercia, di pregevole fattura e snodabile in alcune articolazioni. Tryphaena fu identificata come una fanciulla vissuta nella metà del II secolo d.C. che si presentò agli occhi dei Romani accorsi alla notizia dell’eccezionale ritrovamento come una divinità fluviale. All’apertura del sarcofago infatti, la giovane donna, sommersa nell’acqua proveniente dal vicino Tevere, appariva come una ninfa, come testimoniò l’archeologo Rodolfo Lanciani presente agli scavi:

«Tolto il coperchio, e lanciato uno sguardo al cadavere attraverso il cristallo dell’acqua limpida e fresca, fummo stranamente sorpresi dall’aspetto del teschio, che ne appariva tuttora coperto dalla folta e lunga capigliatura ondeggiante sull’acqua. La fama di cosi mirabile ritrovamento attrasse in breve turbe di curiosi dal quartiere vicino, di maniera che l’esumazione di Crepereia Tryphaena fu compiuta con onori oltre ogni dire solenni, e ne rimarrà lunghi anni la memoria nel rione Prati. Il fenomeno della capigliatura è facilmente spiegato. Con l’acqua di filtramento erano penetrati nel cavo del sarcofago bulbi di una tal pianta acquatica che produce filamenti di color d’ebano, lunghissimi, i quali bulbi avevano messo di preferenza le loro barbicine sul cranio. Il cranio era leggermente rivolto verso la spalla sinistra e verso la gentile figurina di bambola…»

Tra gioielli di Tryphaena fu ritrovato al dito della giovanetta un anello con incisa la parola “Filetus” che fece immaginare al poeta Giovanni Pascoli che fosse il nome del suo promesso sposo mancato poiché la presenza della bambola nel corredo funebre faceva pensare che fosse morta alla vigilia delle nozze non avendo fatto in tempo a donare i suoi giocattoli agli dei per la cerimonia di “addio all’infanzia”.

L’età della fanciulla ricorda in qualche modo Rosa da Viterbo, morta giovanissima e seppellita presso la chiesa parrocchiale di S. Maria in Poggio. A pochi anni di distanza, il corpo venne dissepolto e rinvenuto intatto, secondo talune tradizioni popolari assieme ad una manna profumata o ad un fascio di fiori freschissimi, prima di essere traslato al vicino Monastero delle Damianite. Le spoglie di s. Rosa, giunte sino a noi dopo otto secoli, confermano il legame vivo ancora oggi di un’intera comunità con la testimonianza fisica della sua patrona.

Curiosamente, proprio di fronte alla chiesa di S. Maria in Poggio, oltre quella fontana che è stata testimone di vita quotidiana di Rosa, vi è un antico palazzetto di epoca rinascimentale appartenuto alla famiglia Nini che presenta una particolare “anomalia”. A fianco al portone d’ingresso appare traccia ben visibile di una porticina secondaria murata, che sarebbe ascrivibile alla singolare usanza della “Porta del Morto”. Secondo alcuni studiosi, queste porticine non avevano alcuna finalità difensiva, ma celano un significato di tutt’altro tipo, legato alla superstizione e alle tradizioni funebri medievali. Per i sostenitori di questa ipotesi, infatti, tali porte venivano utilizzate esclusivamente per far uscire le salme dei familiari defunti: esse venivano aperte soltanto quando si verificava un lutto in famiglia e restavano murate per il resto del tempo. Quindi le Porte del Morto avevano un significato difensivo non contro gli attacchi dei vivi, ma contro la Morte stessa, come se grazie a questo stratagemma essa potesse soltanto uscire dalla casa (con i piedi in avanti) senza potervi poi rientrare.

Oggi grazie al progresso tecnico-scientifico siamo giunti, a volte a scapito del resto dell’ecosistema di cui facciamo parte, ad ottimizzare le condizioni per il massimo godimento della nostra vita, a bearci dei benefici raggiunti, a saper governare gli ostacoli naturali che possiamo incontrare strada facendo e dunque ad interpretare la nostra vecchiaia non come il tramonto di questo nostro percorso terreno, ma come il miglior mantenimento possibile dei nostri presupposti. Inconsciamente quindi l’uomo considera come principio primo e assoluto la prosecuzione della vita fisica come una “cristallizzazione” della stessa e non come transito ad una nuova condizione.

Rimaniamo tuttavia consapevoli della finitezza del nostro tempo, senza esser in grado di accettarlo a pieno. La morte è ancora diffusamente in tutto il mondo lo spauracchio da tenere il più possibile lontano da noi, è la paura principale che ci attanaglia, quando questa si avvicina alle nostre vite o a quelle dei nostri congiunti…quando ci lasciano anzitempo.

Anche Gesù affronta in prima persona questo problema. Nella notte al Getsemani egli vive il suo momento più difficile. In quel frangente testimonia la vera fragilità della condizione umana, che è fatta appunto della naturale paura del morire e della tentazione a fuggirsene via. Consapevole fino in fondo della sua missione, teme tuttavia, come farebbe chiunque altro, il momento di quel fatidico “passaggio”. In una confessione intima afferma ad alta voce:

«Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu».  (Mc 14,36)

Nell’esperienza di Gesù, quell’amaro “calice” costituisce la cifra simbolica della sofferenza e della caducità della nostra condizione. L’istinto biologico di sopravvivenza rifiuta la morte perché la percepisce come il termine ultimo.

Il card. Carlo Maria Martini in una delle sue ultime uscite pubbliche diede la sua personale chiave di lettura definitiva al delicato argomento:

«Mi sono riappacificato col pensiero di dover morire quando ho compreso che senza la morte non arriveremmo mai a fare un atto di piena fiducia in Dio. Di fatto in ogni scelta impegnativa noi abbiamo sempre delle uscite di sicurezza. Invece la morte ci obbliga a fidarci totalmente di Dio. È l’insegnamento di Montini, per me fu un po’ come un padre. Perché ciò che ci attende dopo la morte è un mistero che richiede un affidamento totale».

Concetto in qualche modo analogo lo espresse, in tutto il suo colore, persino il “principe della risata”, anche lui sul finire della sua carriera, rimanendo fino all’ultimo coerente con la sua tagliente ironia:

“Non ho paura di morire. La morte è una cosa naturale e averne paura è da fessi. Io la prima cosa che ho fatto quando ho guadagnato nu poco di soldi è stato comprarmi una cappella a Napoli, per andarci ad abitare da morto…” (Antonio De Curtis, Totò).

Recentemente anche un film d’animazione firmato Disney-Pixar, “Coco” (2017), ha dato un importante contributo sul difficile tema della perdita umana, all’interno della cultura di massa. Esso si ispira alla festività messicana del Dìa de Los Muertos, affine alla nostra celebrazione dei defunti nel giorno che precede la festa di Ognissanti. Con un intreccio fantasioso ma ben ponderato, la storia affronta delicatamente il motivo della morte, sdoganandolo per la prima volta dal classico filone horror americano e dalla blasonata festa di Halloween. Il film insegna che si può e si deve parlare dei defunti ed anzi ricordarli, poiché essi sono con noi anche se non fisicamente presenti. Il bambino protagonista della storia scopre che i morti continuano a “vivere” nell’aldilà proprio tramite il ricordo dei vivi. Se anzi non rimanesse più nessuno tra i vivi a conservarne un pensiero, i morti scomparirebbero definitivamente. Il suo compito è quello di aiutare l’anziana bisnonna a ritrovare il ricordo del padre, morto quando lei era solo una bambina e a riscattarne la memoria di fronte ai famigliari prima che si esaurisca il tempo.

Tra i tanti, meriterebbe anche una menzione speciale lo scrittore cattolico britannico J.R.R. Tolkien, la cui intera opera presenta rimandi continui alla Sacra Scrittura, in particolar modo nel Signore degli Anelli, celebre capolavoro pervaso ovunque da quel senso della fragilità umana che, forse per l’autore, solo in Dio trova compimento e appoggio. E’ ciò che traspare specialmente in un passaggio in particolare: quello in cui lo stregone buono Gandalf il Bianco (già risuscitato a nuova vita in seguito ad uno scontro mortale con un potente demone), magistralmente interpretato da Ian McKellen nella trasposizione cinematografica di Peter Jackson, rifranca il giovane hobbit Pipino, assalito dallo scoramento nella fase cruciale della battaglia per la difesa di Minas Tirith, una sorta di Assisi rivisitata in chiave fantasy, assediata dalle forze del male:

Pipino: “Non credevo sarebbe finita così.”

Gandalf: “Finita? No, il viaggio non finisce qui. La morte è soltanto un’altra via. Dovremo prenderla tutti. La grande cortina di pioggia di questo mondo si apre e tutto si trasforma in vetro argentato. E poi lo vedi.”

P: “Cosa? Gandalf!… Vedi cosa?”

G: Bianche sponde, e al di là di queste, un verde paesaggio, sotto una lesta aurora.”

P: “Be’, non è così male.”

G: “No… No, non lo è”.

Mario Brutti e la Biblioteca del Centro Studi Santa Rosa da Viterbo

a cura di Francesco Nocco, direttore della Biblioteca

Il 4 dicembre del 2020 sono caduti i primi due anni dalla scomparsa di Mario Brutti, noto uomo di cultura, infinitamente innamorato della città di Viterbo, nonostante fosse nato a Milano nel 1936, ma da genitori viterbesi trasferiti in Lombardia per motivi di lavoro.

La vita di Mario Brutti è sempre stata legata a Viterbo, sin dalla formazione scolastica: per ragioni familiari ha abitato anche a Grottaferrata, tuttavia il rientro definitivo in città risale agli anni 2000, periodo nel quale ha ricoperto diversi incarichi e ha seguito numerose attività lavorative e culturali; tra gli impegni a cui si è dedicato non si può non menzionare la pluriannuale responsabilità in qualità di Presidente della Fondazione Carivit, a partire dal 2013.

Non poche sono le realtà a cui ha assicurato vicinanza e sostegno: anche il nostro Centro Studi Santa Rosa da Viterbo è testimone di tanta attenzione, non avendo Mario Brutti mai fatto mancare al Centro Studi il suo contributo di saggezza e umanità: per questo motivo è ancora più carico di significato il gesto che ha voluto compiere la famiglia di donare, dopo il 4 dicembre del 2020, proprio al Centro Studi i libri di Mario Brutti.

Si tratta, con ogni evidenza, di una parte della sua raccolta libraria, un nucleo che conta circa cento volumi, ma che dà adeguatamente prova degli interessi intellettuali e delle curiosità dell’uomo di cultura, annoverando opere che spaziano dalla storia alla sociologia, dal diritto all’economia, non senza una specifica incursione nella produzione religiosa, con scritti spirituali di celebri santi e libri di preghiere, attestazioni che delineano, tra gli altri aspetti, il profilo di Mario Brutti come cattolico profondamente impegnato nella comunità pubblica.

L’arrivo del fondo librario di Mario Brutti ha dato idealmente l’avvio alla nascita della Biblioteca del Centro Studi Santa Rosa da Viterbo, realtà che è stata in via ufficiale istituita nel mese di settembre del 2022, avendo come prima donazione bibliografica già compiuta proprio la raccolta di Mario Brutti.

Questi libri oggi si affiancano alle pubblicazioni, da tempo presenti, edite dal Centro Studi e ad altri nuclei librari nel frattempo offerti dai soci e non solo: le consistenze in crescendo ci spronano a valorizzare e promuovere sempre più questa Biblioteca e a ringraziare ancora una volta tutti coloro che, come i familiari di Mario Brutti, hanno dimostrato e dimostreranno una così grande sensibilità culturale e tanto tributo di stima verso il Centro Studi Santa Rosa da Viterbo.

L’inventariazione dei beni storici e artistici ecclesiastici (Summer School)

L’Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto della CEI, la Pontificia Università Gregoriana – Dipartimento dei Beni Culturali della Chiesa, l’Università degli Studi della Tuscia di Viterbo, promuovono la Summer School “L’inventariazione dei beni storici e artistici ecclesiastici”, finalizzata a offrire la formazione necessaria per l’inventariazione dei beni storici e artistici delle Diocesi e degli Ordini religiosi, secondo la normativa CEI-OA.

La Summer School si svolgerà dal 5 al 9 giugno e dal 24 al 28 luglio 2023, a Viterbo, presso il Monastero di Santa Rosa, con il coordinamento e l’organizzazione del Centro Studi Santa Rosa da Viterbo. Si tratta di due settimane residenziali, intensive, divise tra teoria e pratica, al termine delle quali verrà rilasciato un attestato dall’Ufficio Nazionale BCE della CEI che abiliterà alla schedatura presso le Diocesi e gli Ordini religiosi.

Le candidature dovranno pervenire compilando questo modulo online entro il 1 aprile 2023.