a cura di Angelo Sapio
Nell’ormai secolarizzata cultura occidentale due sono le festività cristiane che hanno meglio retto all’urto dei tempi, seppur profondamente alterate nel loro significato intrinseco, in quanto spogliate della propria valenza spirituale in funzione delle nuove esigenze proprie della moderna civiltà globale. Si tratta ovviamente del Natale e della Pasqua, le quali, grazie al forte richiamo evocativo che hanno saputo mantenere, si sono riadattate in chiave laica alla contemporaneità, permettendo allo stesso tempo di tramandare un patrimonio fatto di virtù e di doti morali ancora valide per il presente.
Diversamente dal Natale, la Pasqua è riuscita peraltro a conservare un’aura di maggiore neutralità, una sua immagine austera in cui il credente sperimenta meglio raccoglimento e contemplazione senza eccessive interposizioni.
Essa vanta inoltre una preesistente tradizione all’interno del culto ebraico, l’antica Pasqua, Pesach, in cui tutt’oggi viene celebrata la liberazione degli Ebrei dall’Egitto. La parola Pesach, che significa “passare oltre”, deriva dal racconto della decima piaga nella quale il Signore comandò agli Ebrei di segnare con il sangue dell’agnello le porte delle case di Israele permettendo allo sterminatore di “andare oltre” colpendo così solo le case degli Egizi e, in particolar modo, i primogeniti maschi degli Egizi, compreso il figlio del faraone (Esodo, 12,21-34). Pesach indica quindi la liberazione di Israele dalla schiavitù d’Egitto e l’inizio di una nuova libertà con Dio verso la terra promessa.
Con l’avvento del cristianesimo, la Pasqua ha acquisito un nuovo significato, indicando il passaggio da morte a vita per Gesù Cristo e il passaggio a vita nuova per i cristiani, liberati dal peccato con il sacrificio sulla croce e chiamati a risorgere con Gesù. La Pasqua cristiana che è quindi Pasqua di Risurrezione, è la chiave interpretativa della nuova alleanza, concentrando in sé il significato del mistero messianico di Gesù e collegandolo al Pesach dell’Esodo. Ponendo al centro la vicenda di Gesù, morto nel venerdì precedente la festa ebraica e risorto il giorno successivo, i cristiani leggono nella narrazione della Passione, l’avverarsi delle Scritture.
Dal punto di vista teologico, la Pasqua racchiude in sé tutto il mistero cristiano: con la Passione Cristo si è immolato per l’uomo, liberandolo dal peccato originale e riscattando la sua natura ormai corrotta, permettendogli quindi di passare dai vizi alla virtù; con la Risurrezione ha vinto sul mondo e sulla morte, mostrando all’uomo il proprio destino, ovvero la risurrezione nel giorno finale, ma anche il risveglio alla vera vita. Tutti questi concetti, oggi forse di difficile comprensione se rapportati alla complessità delle nostre azioni quotidiane, forniscono tuttavia un’occasione importante alle nostre riflessioni esistenziali.
Nell’arco della Settimana Santa precetti e riti della tradizione popolare si alternano e si sovrappongono in un insieme unico di esperienze individuali o condivise che spaziano dalla rinuncia alla preghiera, dall’attesa alla partecipazione, dalla vicinanza al ritiro. E’ il momento dell’anno per eccellenza in cui più si riflette sul mistero della vita e della vita oltre la morte.
In ogni epoca l’essere umano ha sempre cercato di fare i conti con la sua “finitezza”, che è una condizione analoga a tutte le altre forme viventi presenti sul pianeta, provando da un lato a prolungare la sua presenza terrena e dall’altro a intravvedere un “oltre” che possa dare un senso a quanto abbiamo costruito da vivi…
Sin dall’antichità il culto dei morti ha sempre esercitato una certa influenza all’interno della civiltà umana. Nel mondo romano e preromano ad esempio, era usanza seppellire i propri defunti all’interno di sarcofagi decorati da figure riferibili al mondo del mito: queste erano spesso utilizzate per descrivere le diverse qualità del defunto, o più in generale per alludere alla felicità dell’oltretomba attraverso la rievocazione di un mondo sereno e felice. Al loro interno veniva poi riposto un corredo funebre consono al rango sociale della famiglia. In talune circostanze, come nel caso della necropoli romana rinvenuta al di sotto delle grotte vaticane, le sepolture venivano realizzate con delle cavità attraverso le quali poter continuare a “nutrire” le salme dei defunti. Queste pratiche denotano la volontà degli individui a non separarsi mai totalmente dalla corporeità di chi li ha preceduti.
Nel 1889, durante i lavori di scavo per le fondazioni del Palazzo di Giustizia di Roma, vennero alla luce diversi reperti archeologici, tra i quali due sarcofagi ancora sigillati intitolati a personaggi della stessa famiglia: Crepereia Tryphaena, una giovane di circa vent’anni ed il padre Crepereius Euhodus, oggi conservati presso la ex Centrale Montemartini. Il corredo funebre, presente solo nel sarcofago di Tryphaena, appariva molto ricco di ornamenti d’oro e deposta accanto al suo scheletro vi era una bambola d’avorio, inizialmente creduta di legno di quercia, di pregevole fattura e snodabile in alcune articolazioni. Tryphaena fu identificata come una fanciulla vissuta nella metà del II secolo d.C. che si presentò agli occhi dei Romani accorsi alla notizia dell’eccezionale ritrovamento come una divinità fluviale. All’apertura del sarcofago infatti, la giovane donna, sommersa nell’acqua proveniente dal vicino Tevere, appariva come una ninfa, come testimoniò l’archeologo Rodolfo Lanciani presente agli scavi:
«Tolto il coperchio, e lanciato uno sguardo al cadavere attraverso il cristallo dell’acqua limpida e fresca, fummo stranamente sorpresi dall’aspetto del teschio, che ne appariva tuttora coperto dalla folta e lunga capigliatura ondeggiante sull’acqua. La fama di cosi mirabile ritrovamento attrasse in breve turbe di curiosi dal quartiere vicino, di maniera che l’esumazione di Crepereia Tryphaena fu compiuta con onori oltre ogni dire solenni, e ne rimarrà lunghi anni la memoria nel rione Prati. Il fenomeno della capigliatura è facilmente spiegato. Con l’acqua di filtramento erano penetrati nel cavo del sarcofago bulbi di una tal pianta acquatica che produce filamenti di color d’ebano, lunghissimi, i quali bulbi avevano messo di preferenza le loro barbicine sul cranio. Il cranio era leggermente rivolto verso la spalla sinistra e verso la gentile figurina di bambola…»
Tra gioielli di Tryphaena fu ritrovato al dito della giovanetta un anello con incisa la parola “Filetus” che fece immaginare al poeta Giovanni Pascoli che fosse il nome del suo promesso sposo mancato poiché la presenza della bambola nel corredo funebre faceva pensare che fosse morta alla vigilia delle nozze non avendo fatto in tempo a donare i suoi giocattoli agli dei per la cerimonia di “addio all’infanzia”.
L’età della fanciulla ricorda in qualche modo Rosa da Viterbo, morta giovanissima e seppellita presso la chiesa parrocchiale di S. Maria in Poggio. A pochi anni di distanza, il corpo venne dissepolto e rinvenuto intatto, secondo talune tradizioni popolari assieme ad una manna profumata o ad un fascio di fiori freschissimi, prima di essere traslato al vicino Monastero delle Damianite. Le spoglie di s. Rosa, giunte sino a noi dopo otto secoli, confermano il legame vivo ancora oggi di un’intera comunità con la testimonianza fisica della sua patrona.
Curiosamente, proprio di fronte alla chiesa di S. Maria in Poggio, oltre quella fontana che è stata testimone di vita quotidiana di Rosa, vi è un antico palazzetto di epoca rinascimentale appartenuto alla famiglia Nini che presenta una particolare “anomalia”. A fianco al portone d’ingresso appare traccia ben visibile di una porticina secondaria murata, che sarebbe ascrivibile alla singolare usanza della “Porta del Morto”. Secondo alcuni studiosi, queste porticine non avevano alcuna finalità difensiva, ma celano un significato di tutt’altro tipo, legato alla superstizione e alle tradizioni funebri medievali. Per i sostenitori di questa ipotesi, infatti, tali porte venivano utilizzate esclusivamente per far uscire le salme dei familiari defunti: esse venivano aperte soltanto quando si verificava un lutto in famiglia e restavano murate per il resto del tempo. Quindi le Porte del Morto avevano un significato difensivo non contro gli attacchi dei vivi, ma contro la Morte stessa, come se grazie a questo stratagemma essa potesse soltanto uscire dalla casa (con i piedi in avanti) senza potervi poi rientrare.
Oggi grazie al progresso tecnico-scientifico siamo giunti, a volte a scapito del resto dell’ecosistema di cui facciamo parte, ad ottimizzare le condizioni per il massimo godimento della nostra vita, a bearci dei benefici raggiunti, a saper governare gli ostacoli naturali che possiamo incontrare strada facendo e dunque ad interpretare la nostra vecchiaia non come il tramonto di questo nostro percorso terreno, ma come il miglior mantenimento possibile dei nostri presupposti. Inconsciamente quindi l’uomo considera come principio primo e assoluto la prosecuzione della vita fisica come una “cristallizzazione” della stessa e non come transito ad una nuova condizione.
Rimaniamo tuttavia consapevoli della finitezza del nostro tempo, senza esser in grado di accettarlo a pieno. La morte è ancora diffusamente in tutto il mondo lo spauracchio da tenere il più possibile lontano da noi, è la paura principale che ci attanaglia, quando questa si avvicina alle nostre vite o a quelle dei nostri congiunti…quando ci lasciano anzitempo.
Anche Gesù affronta in prima persona questo problema. Nella notte al Getsemani egli vive il suo momento più difficile. In quel frangente testimonia la vera fragilità della condizione umana, che è fatta appunto della naturale paura del morire e della tentazione a fuggirsene via. Consapevole fino in fondo della sua missione, teme tuttavia, come farebbe chiunque altro, il momento di quel fatidico “passaggio”. In una confessione intima afferma ad alta voce:
«Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu». (Mc 14,36)
Nell’esperienza di Gesù, quell’amaro “calice” costituisce la cifra simbolica della sofferenza e della caducità della nostra condizione. L’istinto biologico di sopravvivenza rifiuta la morte perché la percepisce come il termine ultimo.
Il card. Carlo Maria Martini in una delle sue ultime uscite pubbliche diede la sua personale chiave di lettura definitiva al delicato argomento:
«Mi sono riappacificato col pensiero di dover morire quando ho compreso che senza la morte non arriveremmo mai a fare un atto di piena fiducia in Dio. Di fatto in ogni scelta impegnativa noi abbiamo sempre delle uscite di sicurezza. Invece la morte ci obbliga a fidarci totalmente di Dio. È l’insegnamento di Montini, per me fu un po’ come un padre. Perché ciò che ci attende dopo la morte è un mistero che richiede un affidamento totale».
Concetto in qualche modo analogo lo espresse, in tutto il suo colore, persino il “principe della risata”, anche lui sul finire della sua carriera, rimanendo fino all’ultimo coerente con la sua tagliente ironia:
“Non ho paura di morire. La morte è una cosa naturale e averne paura è da fessi. Io la prima cosa che ho fatto quando ho guadagnato nu poco di soldi è stato comprarmi una cappella a Napoli, per andarci ad abitare da morto…” (Antonio De Curtis, Totò).
Recentemente anche un film d’animazione firmato Disney-Pixar, “Coco” (2017), ha dato un importante contributo sul difficile tema della perdita umana, all’interno della cultura di massa. Esso si ispira alla festività messicana del Dìa de Los Muertos, affine alla nostra celebrazione dei defunti nel giorno che precede la festa di Ognissanti. Con un intreccio fantasioso ma ben ponderato, la storia affronta delicatamente il motivo della morte, sdoganandolo per la prima volta dal classico filone horror americano e dalla blasonata festa di Halloween. Il film insegna che si può e si deve parlare dei defunti ed anzi ricordarli, poiché essi sono con noi anche se non fisicamente presenti. Il bambino protagonista della storia scopre che i morti continuano a “vivere” nell’aldilà proprio tramite il ricordo dei vivi. Se anzi non rimanesse più nessuno tra i vivi a conservarne un pensiero, i morti scomparirebbero definitivamente. Il suo compito è quello di aiutare l’anziana bisnonna a ritrovare il ricordo del padre, morto quando lei era solo una bambina e a riscattarne la memoria di fronte ai famigliari prima che si esaurisca il tempo.
Tra i tanti, meriterebbe anche una menzione speciale lo scrittore cattolico britannico J.R.R. Tolkien, la cui intera opera presenta rimandi continui alla Sacra Scrittura, in particolar modo nel Signore degli Anelli, celebre capolavoro pervaso ovunque da quel senso della fragilità umana che, forse per l’autore, solo in Dio trova compimento e appoggio. E’ ciò che traspare specialmente in un passaggio in particolare: quello in cui lo stregone buono Gandalf il Bianco (già risuscitato a nuova vita in seguito ad uno scontro mortale con un potente demone), magistralmente interpretato da Ian McKellen nella trasposizione cinematografica di Peter Jackson, rifranca il giovane hobbit Pipino, assalito dallo scoramento nella fase cruciale della battaglia per la difesa di Minas Tirith, una sorta di Assisi rivisitata in chiave fantasy, assediata dalle forze del male:
– Pipino: “Non credevo sarebbe finita così.”
– Gandalf: “Finita? No, il viaggio non finisce qui. La morte è soltanto un’altra via. Dovremo prenderla tutti. La grande cortina di pioggia di questo mondo si apre e tutto si trasforma in vetro argentato. E poi lo vedi.”
– P: “Cosa? Gandalf!… Vedi cosa?”
– G: “Bianche sponde, e al di là di queste, un verde paesaggio, sotto una lesta aurora.”
– P: “Be’, non è così male.”
– G: “No… No, non lo è”.