I progetti con i detenuti presso il carcere di Viterbo
Riportiamo l’intervento integrale tenuto dalla dott.ssa Eleonora Rava tenuto al convegno “Oltre la pena. Percorsi di accoglienza e inclusione nella realtà di Viterbo”, organizzato dal GAVAC (Gruppo Assistenti Volontari Animatori Carcerari) di Viterbo il 14 ottobre 2022. Si descrive le attività del Centro Studi con il carcere di Viterbo in questi ultimi anni.
Ringrazio gli organizzatori del convegno per averci invitato a comunicare la nostra esperienza all’interno del carcere di Viterbo.
Il Centro Studi Santa Rosa è un neofita in questo settore, potendo vantare solo qualche anno di attività all’interno del mondo carcerario, resa possibile grazie al coinvolgimento del nostro Centro a un progetto finanziato dalla Comunità Europa con una Marie Curie Individual Fellowship sul fenomeno della reclusione volontaria. I nostri interessi verso la popolazione carceraria erano a quel tempo esclusivamente di tipo culturale e scientifico: avere ‘esperti’ con cui confrontarsi su un tema di nostro interesse.
Il Centro Studi Santa Rosa nasce, infatti, come istituto di ricerca costituito da professionisti dei beni culturali (storici, paleografi e diplomatisti, archivisti, filologi, storici dell’arte) per la tutela del patrimonio storico artistico e documentario della Federazione S. Chiara delle Monache Clarisse Urbaniste d’Italia e in particolare del monastero di Santa Rosa. Oltre ad assicurare la gestione e la tutela del patrimonio della Federazione, svolge un’intensa e larga attività culturale, che si articola in convegni scientifici e divulgativi e iniziative di ricerca.
Dopo quel primo approccio con il mondo carcerario le cose sono cambiate e all’interno dell’attività di valorizzazione di questo ingente e ricco patrimonio delle Clarisse Urbaniste sono stati strutturati progetti dedicati a persone in condizioni difficili, in particolare i detenuti. Le persone detenute sono state coinvolte in due distinti progetti, uno di recupero delle attività artigianali tipiche del monastero di Santa Rosa, l’altro di edizione di testi manoscritti. Entrambi i progetti sono stati pensati per arricchire la formazione personale del detenuto attraverso percorsi esperienziali con valenza socioculturale; per favorire la libera espressione del detenuto oltre che per coinvolgere il detenuto in attività di studio e ricerca.
Il primo, Rose che sprigionano. Attività artigianali per l’integrazione sociale, è un progetto che si sta conducendo da due anni presso la Casa Circondariale di Viterbo. Il primo anno è stato finanziato dalla Regione Lazio e grazie al contributo ricevuto è stato possibile retribuire i 5 partecipanti; l’anno successivo e l’anno in corso sono invece stati finanziati dal Centro Studi e i detenuti esplicano una attività di puro volontariato.
Il progetto Rose che sprigionano ha previsto e prevede incontri formativi e attività pratiche tese a insegnare ai detenuti lavorazioni tessili artigianali plurisecolari – in particolare quella della produzione di rose di seta reliquiari delle clarisse di Santa Rosa – che possano garantire loro, una volta tornati in libertà, una via di accesso al mondo del lavoro – per esempio nel settore di finiture per abiti di sartoria e di complementi d’arredo.
Le rose di stoffa prodotte dai detenuti vengono donate al monastero di Santa Rosa di Viterbo, dove entrano a far parte degli oggetti devozionali legati al culto della patrona viterbese, richiestissimi dai fedeli soprattutto in occasione della festa settembrina. In questo progetto sono attualmente coinvolti 16 detenuti dell’alta sicurezza.
Ogni persona detenuta ha trovato, con l’aiuto dei formatori, il proprio ruolo all’interno di questo progetto, mettendo in campo capacità manuali fino ad allora silenti. La progettazione e la costruzione di un oggetto ha portato ad una sempre crescente gratificazione personale e allo stesso tempo ha consentito a ciascuno di specializzarsi in un aspetto (colorazione dei petali, formatura delle foglie, montaggio della corolla, packaging, ecc.) sviluppando un forte senso per il lavoro di squadra. Questo è uno degli obiettivi principali raggiunti dal progetto. Le persone detenute sono diventate un gruppo di lavoro integrato. Ciascuno di loro ha acquisito un ruolo in una ideale catena di montaggio avendo cura di rispettare il lavoro degli altri e insegnare al compagno come migliorare la fase di lavorazione assegnata. Con grande spirito critico ognuno ha riconosciuto i propri limiti, ma ha soprattutto messo a fuoco le proprie capacità tecniche e artistiche sino ad allora perlopiù celate.
Con il secondo progetto, Esperienze di reclusione, si è inteso invece arricchire la formazione personale dei detenuti coinvolgendoli nello studio della documentazione conservata presso l’Archivio della Federazione. Attraverso l’attività di trascrizione di manoscritti i detenuti sono stati sensibilizzati verso le antiche scritture: si è insegnato loro a leggere, a trascrivere e a fare edizione di fonti. In particolare i detenuti sono stati invitati a trascrivere un codice manoscritto del monastero delle Cappuccinelle di Aversa databile al XVII secolo. Si tratta di un codice in volgare che elenca mese per mese l’organizzazione interna, gli usi liturgici e alimentari della comunità monacale.
L’idea di far lavorare dei detenuti su fonti monacali nasce dalla constatazione delle analogie nelle dinamiche di gruppo che sussistono all’interno delle due istituzioni totali, il monastero e il carcere. Esistono a riguardo importanti progetti internazionali come quello francese condotto sotto la direzione di Isabelle Heullant-Donat, Enfermements. Histoire comparée des enfermements monastiques et carcéraux, che ha lo scopo precipuo di evidenziare le specificità e le relazioni tra reclusione religiosa monastica e l’incarceramento.
Lo scopo del progetto è stato quello di comprendere insieme ai detenuti il fenomeno della reclusione volontaria monastica; il rapporto tra reclusione volontaria, quella delle monache, e involontaria, quella dei detenuti, con l’obiettivo di fornire a quest’ultimi una nuova prospettiva della reclusione rispetto alla loro personale esperienza: la detenzione come un’opportunità, piuttosto che come una pena. Questo è stato possibile perché la distanza non solo temporale tra i detenuti e la fonte analizzata ha favorito i detenuti a lavorare su se stessi e sulla loro condizione di reclusi.