Parte I: La Rosa trionfante
a cura di Stefano Aviani Barbacci
Nell’epoca successiva alla caduta dell’impero degli Atzechi nel 1521, si realizza in Messico un sorprendente intreccio di aspetti culturali e religiosi autoctoni ed iberici che trova ben pochi termini di confronto nella storia del mondo, con frutti originali in molteplici campi comprese le arti figurative e la musica. Una sintesi audace che segna il sorgere di una civilizzazione che sarà detta “ibero-americana” e che in quel Paese trova il proprio simbolo peculiare nell’immagine della Virgen de Guadalupe e nel racconto delle sue apparizioni all’indio chichimeca Juan Diego Cuauhtlatoatzin, nel Dicembre del 1531. L’aspetto meticcio col quale la Morenita appare in un fascio di rose all’incredulo vescovo Juan de Zumarraga sembra alludere al sorgere di un popolo nuovo: il popolo messicano. Da allora è venerata come la “Rosa del Messico”. Di lì a poco, nel 1535, i territori spagnoli nell’America del Nord saranno riorganizzati a comporre il Virreinato de Nueva España con Città del Messico come capitale.
Trionfo di Santa Rosa da Viterbo (scultura napoletana del ‘700) a Querétaro
Juan de Zumarraga, vescovo di Città del Messico, apparteneva alla Orden Franciscana e proprio il ruolo preminente dei francescani nell’evangelizzazione del Nuovo Mondo spiega l’inserirsi della figura di Santa Rosa da Viterbo anche in questo Paese. Abbiamo documentato in precedenti articoli la sorprendente diffusione della Rosa viterbese nell’America meridionale e specificatamente nel Virreinato del Perú (nel mondo andino) interpretando il significato di questa presenza in relazione a tratti specifici della vicenda storica e della figura devozionale di questa santa. Qui ricorderemo appena che, ancora all’epoca delle indipendenze nazionali dell’Argentina e del Cile, ci si riferiva alla patrona di Viterbo come alla “Rosa delle Ande”, titolo che aveva avuto origine, evidentemente, in epoca coloniale ad indicare un patronato sulle popolazioni andine evangelizzate nei secoli XVII e XVIII. É dunque ben possibile che Rosa da Viterbo possa aver avuto un ruolo similare anche nell’evangelizzazione dei territori spagnoli dell’America del Nord. Qui le tracce sono in qualche modo ancor più sparse e confuse a causa della travagliatissima storia politica della República Federal de Mexico e del lungo predominio di una élite ben determinata a cancellare i segni della fede cattolica dalla vita del popolo messicano.
Rosa sfida l’eretica, dalla “Vida de Santa Rosa da Viterbo” di José de Nava
Molte evidenze indicano che la Rosa viterbese fosse conosciuta in Messico in epoca coloniale. Suoi ritratti furono commissionati ai grandi pittori del XVIII secolo, come nei casi di “Santa Rosa de Viterbo” di Carlos Clemente López, oggi nel Museo Nacional de Artes Plásticas di Città del Messico, e di “Santa Rosa de Viterbo predicando cuando era niña” di Francisco Eduardo Tresguerras, parte della Collección Andrés Blastein a Tlatelolco (Città del Messico). Quest’ultimo insiste sul tema della fanciullezza della santa caro al mondo ispanico ed ibero-americano, dove ci si riferiva affettuosamente a Rosa come alla Santa-Niña. Due raffigurazioni pittoriche entrambe titolate “Santa Rosa de Viterbo” si trovano a Tlaxacala: una è inserita in un retablo nella chiesa di San Francesco, l’altra consiste di una tela nel santuario di San Michele del Miracolo (edificato a memoria della conversione dei nativi Cacaxtlas). Entrambe rievocano il miracolo della prova del fuoco collocandolo tuttavia in un contesto rurale o montano. Il medesimo episodio è raffigurato anche a Guanajato, in un dipinto titolato “Santa Rosa de Viterbo franciscana de la Tercera Orden”, dove l’ordalia si risolve invece in un contesto urbano che compone uno sfondo audacemente surrealista. Committente dell’opera una fraternità dei terziari francescani, numerosi nel Messico novohispano. Queste ultime opere, di autori ignoti, sono da riferirsi ai secoli XVII e XVIII.
Il ricordo di una Mision Franciscana de Santa Rosa de Viterbo de los Nadadores (Coahuila de Zaragoza), attiva presso i Cotzales (dal 1675) e i Tlaxcaltecas (dal 1733), certifica il ruolo della Rosa viterbese nell’evangelizzazione dei nativi. Era stata fondata dai francescani Francisco Peñasco e Juan Barrera nel 1674 col semplice nome di “Mision de Santa Rosa”. Un contesto simile spiega la presenza di Santa Rosa da Viterbo nella Mision de San Xavier Del Bac, in Arizona (USA) dove è raffigurata nel tamburo della cupola del magnifico santuario d’epoca barocca. Nell’affresco, una pietra si solleva dal suolo consentendo a Rosa di farsi ascoltare anche dalle persone più distanti: memoria di un celebrato miracolo, ma anche evidente allusione al nuovo compito missionario assegnato alla Santa-Niña nelle lontane terre americane. La missione di San Saverio (San Xavier) fu stabilita per evangelizzare i cosiddetti Papagos (gli attuali Tohono O’odham) e si trova tutt’ora all’interno della loro riserva. Qui operarono sia i francescani (un cui vicino insediamento era stato distrutto dai bellicosi Apaches) che i gesuiti e qui pervenne, nel 1692, il celebre missionario della Compagnia di Gesù Eusebio Kino. Trascorsi pochi anni dall’indipendenza dalla Spagna, gli Stati Uniti sottrassero alla neocostituita República Federal de México i vasti e poco popolosi territori del Tejas, del Nuevo Mejico, dell’Alta California e dell’Arizona.
Ma Santa Rosa da Viterbo dovette esser popolare anche nel cuore del Virreinato, tra Veracruz e Città del Messico, dove si colloca la vicenda di Gertrudis Rosa de Ortiz De Cortés, conosciuta da tutti come “la Viterbo” anche per la concordanza di alcune circostanze della sua vita con noti episodi biografici attribuiti alla Rosa viterbese. Fu penitente e predicatrice di strada. Sostenne di vedere il Bambin Gesù (che le avrebbe parlato dall’età di 5 o 6 anni) la Vergine Maria e il Cristo sofferente. Le si attribuirono profezie e guarigioni miracolose. Sopportò avversità e malattie, invitando la popolazione e le pubbliche autorità a una fede sincera e a una vita di penitenza per evitare i castighi di Dio. Le fu rifiutato l’ingresso nei conventi della città cui aveva bussato (primo tra tutti quello di San Francesco) e, essendo illetterata e priva di una guida spirituale, attrasse su di se le attenzioni di una Santa Inquisizione sempre diffidente con mistici ed predicatori improvvisati. Fu giudicata una “debole di mente”, inviata a servizio presso un sanatorio e le fu interdetta ogni attività pubblica. Malgrado le radici “francescane”, Gertrudis Rosa indossò infine l’abito carmelitano che portò fino al giorno della morte, 11 Novembre del 1725.
La vicenda di Gertrudis Rosa certifica la popolarità della Rosa viterbese a Città del Messico, anche tra coloro che non sapevano leggere e scrivere. Interessante a questo riguardo la pubblicazione a Puebla di una “Vida de Santa Rosa de Viterbo” comprensiva di 33 tavole del celebre incisore José de Nava (1735-1817), un eloquente racconto per immagini della vita e dei miracoli della Patrona viterbese. Ma più di tutti furono la fondazione a Querétaro del Beaterio, poi Colegio e Real Colegio, di Santa Rosa da Viterbo e del connesso Templo ad offrire alla Patrona viterbese una straordinaria ribalta a cavallo dei secoli XVII e XVIII. Di questo magnifico santuario ha trattato Alessandro Finzi in precedenti articoli e nel suo libro “Santa Rosa in Messico” (2006). Costruito sotto il patrocinio di Elisabetta Farnese (1692-1766), regina di Spagna, vi lavorarono i maggiori artisti dell’epoca e tuttora accoglie importanti opere d’arte ed un sontuoso arredo d’epoca barocca. Vi si trovano tre raffigurazioni scultoree della Rosa viterbese (una del ‘700 fatta venire da Napoli) all’interno, una quarta è inserita nella sontuosa decorazione esterna del portale d’ingresso. Il Real Colegio accolse nel periodo di massimo splendore una comunità femminile di quasi 100 giovani di varia provenienza ed estrazione sociale, chiamate Beatas Franciscanas, Madres Rosas o, più affettuosamente, Rositas.
Copia manoscritta del 1867 delle Costituzioni del Real Colegio di Querétaro
Invero, i cosiddetti Beateri furono tra le istituzioni maggiormente distintive della religiosità messicana dell’epoca del Virreinato. Si chiamarono Beatas quelle donne che intendevano vivere secondo uno status intermedio tra quello religioso propriamente detto e quello secolare, professando voti temporanei. Provenienti da ogni ceto sociale, erano dedite alla preghiera, allo studio e al lavoro manuale. Vestivano l’abito dei “terziari” del medesimo Ordine cui erano associate (più spesso i Francescani e i Domenicani, ma anche gli Agostiniani e i Carmelitani). Accoglievano bambine orfane, vedove e donne abbandonate. Offrivano penitenze e preghiere per le intenzioni di chiunque ne facesse loro richiesta. Queste istituzioni godevano di buona fama presso il popolo che le sosteneva con aiuti pratici ed elemosine, godevano anche della protezione di personaggi influenti della società del tempo. Beaterios e Colegios de Niñas titolati a Santa Rosa da Viterbo sono attestati in Messico non solo a Santiago de Querétaro, ma anche a Valladolid (Michoacán), a Veracruz (Veracruz de Ignacio de la Llave) e, probabilmente, a San Andrés de Cholula (Puebla). Delle Rositas di Querétaro e della loro vicenda eroica e drammatica diremo nella seconda parte di questo articolo.